
Milano, Italia – Portarsi il pranzo da casa al lavoro, a scuola, durante un viaggio, è un gesto universalmente noto. Sui tiffin box di Mumbai è stato fatto un film (The Lunchbox, molto bello) e sono state scritte diverse tesi. La schiscetta lombarda ha accompagnato generazioni intere di milanesi. Stiamo parlando di qualcosa di diverso dal cestino da pic nic, perché ha l’aura della quotidianità e con essa della famigliarità del contenuto: si mangia fuori come a casa, con la firma di chi ha preparato il contenuto, di solito persona di famiglia, che la pausa pranzo qualcosa di domestico.
Anche in Giappone, paese dei nomadi metropolitani tokyensi e dei pendolari dello shinkansen, il treno pallottola, esiste qualcosa di simile, preparato a casa o da acquistare pronto nelle stazioni o dai distributori automatici. Si chiama Bento ed è una scatola di legno – i giapponesi dal punto di vista del plastic free sono decisamente avanti – dal design semplice ed elegante al cui interno i vari scomparti contengono cibi diversi, scelti in modo da comporre un pranzo dieteticamente equilibrato e saporito.

La cuoca giapponese Keiko Irimajiri, dopo cicli di lezioni di successo a Tokyo e New York, oggi insegna a Milano e, ci sarebbe da scommettere, ben presto attecchirà anche da noi la bento-mania.
Se nelle nostrane schiscette ce la si cava rapidamente con gli avanzi della sera prima o con cibi poco cucinati, comporre un bento è una cosa seria, un’arte quasi, paragonabile con qualche azzardo alla calligrafia o alla composizione dei fiori.

Nella tradizione giapponese, tutto va cucinato con cura, tutto va misurato (non esiste la presa di sale, esiste il misurino da rasare con uno stuzzicadenti). Ogni prodotto ha tempi precisi: 19 secondi per sbollentare gli spinaci o la rucola da mangiare come contorno, condita con soia, vino di riso e semi di sesamo (bianchi e tostati!).
E stiamo parlando della versione “base”, cioè quella semplice, da tutti i giorni, del bento. Che conterrà almeno un paio di onigiri, polpette di riso, cotto in acqua che viene assorbita dal chicco (non scolata!) e precedentemente lavato. Gli onogiri vanno poi farciti a mano con salmone (essicato in casa) o katsuobushi (fiocchi di tonnetto essicato, fermentato e affumicato) e avvolte nell’alga nori.
Il pollo va prima marinato e poi fritto. La frittata ha una padella apposta rettangolare, per poi avvolgerla come un tappeto e tagliarla a grosse rondelle.

Tutto deve avere un perfetto equilibrio fra dolce e salato, caldo freddo, croccante morbido, come nella cucina di uno chef stellato, ma formato famiglia.
Se si è intrigati (e come non esserlo?) dai segreti, le follie, le sofisticherie della cucina giapponese, bisogna leggere Tokyo Stories (ed. EDT) di Tim Anderson. Vincitore di Master Chef inghilterra, nippo-maniaco, lo chef del ristorante Nanban a Brixton ha scritto un libro bello, divertente e colorato. In una parola postmoderno, come una faccia del Giappone.

Info: JNTO
Elena Bianco
elena@agendaviaggi.com