Un viaggio in Bosnia Herzegovina, un modo per non dimenticare le atrocità di una guerra assurda in un Paese dalle incredibili ricchezze culturali e dagli stupendi paesaggi naturali.
Sarajevo, Bosnia Herzagovina.
Quando si pensa a paesi martoriati dalla guerra e dall’odio etnico, presidiati da contingenti delle “Forze di Pace”, divisi in mille rigagnoli da politiche troppo secessionistiche che possono solo alimentare la divisione che già nell’animo umano è radicata, s’immaginano terre lontane, immerse nel buio profondo della ragione e della geografia. E non si può pensare che nel passato recente, proprio vicino a noi, passata una frontiera inesistente, si materializzano zone di morte, di grandi “cimiteri sotto la luna”.
Nella visita alla Bosnia Herzegovina non è possibile evitare ciò che la storia ufficiale e quella dei sopravvissuti ci raccontano. Ogni passo, ogni paese attraversato, ogni volto incontrato è ancora testimonianza vivente di questa triste realtà. E’ quindi impensabile visitare questi luoghi solo come turisti distratti, astenendosi dal ripercorrere quei tragici avvenimenti. Così basta seguire una strada del nord, direzione Trieste, e proprio sul confine s’inciampa in un primo “non luogo”, in una terra di nessuno patria solo delle vittime e del loro ricordo : bastano due pezzi di ferro abbracciati a croce per dire, in una landa deserta ed anonima, che già qui stai calpestando la storia dell’odio tra gente della stessa terra. Tragicamente come in un domino la storia si apre oltre quel confine con le foibe di Basovizza.
E l’auto va, scorrono le strade immerse in meravigliosi paesaggi puntellati di monumenti alla memoria (freddi impasti di ferro e cemento) e di edifici ancora piangenti di una guerra che nessuno dei semplici sa ancora spiegare.
Arriviamo così, frastornati da una storia ingarbugliata da troppe morti inutili, a Srebrenica. Il cielo plumbeo sembra quasi che ci aspetti, aspetti tutti i pochi turisti che lì arrivano, per piangere, per rovesciarti addosso tutto il suo dolore per ciò che ha dovuto vedere. E piove nella sera in questo piccolo paese che non ha alcuna pretesa turistica e che avrebbe forse voluto restare anonimo ma che la guerra ha scelto, portato alle cronache nella maniera peggiore. La mattina seguente il cielo è azzurro, il clima mite, ma non si appannano i segni della guerra recente, anzi sono più nitidi : le case ferite lasciate a fianco di altre “gemelle” in ricostruzione, nella speranza di un ritorno alla normalità. Mille fori di proiettili sui muri, il “grazioso” disegno impresso dalle granate, i volantini funebri lasciati dalle marce della pace lungo la via principale e sulle case dei morti.
E le donne, tante donne che non vogliono apparire, parlare. Vogliono silenzio e rispetto. Ad alta voce però chiedono “giustizia”, riconoscimento degli eccidi avvenuti e commemorati nei tanti sacrari che successivamente incontreremo. La “fabbrica della morte” di Potocari adibita un tempo alla lavorazione del rame, diventa oggi toccante museo che raccoglie il vuoto dell’eccidio assurdo tra le sue nude pareti e costudisce in piccole teche quotidiani ricordi di tanti, molti neppure adolescenti, ma ora tutti insieme nel campo di fronte : ottomila musulmani di Bosnia rastrellati senza colpa qui rinchiusi e trucidati.
E ci accorgiamo che c’è un linguaggio comune anche dove si incontrano lingue diverse ed è quello del dolore : presso i tumuli funerari, pregando per i loro morti, i tanti che restano ci raccontano storie e chiedono che si fotografino le lapidi e il dolore e che questo sia portato per il mondo a conoscenza e testimonianza. E’ strano che proprio presso queste lapidi, nel paese dove si è uccisa gente della stessa lingua ed etnia, non abbiamo bisogno di interpreti, di intermediazione : il linguaggio del dolore e della richiesta di verità, come l’altro della violenza e della separazione, è forse radicato veramente in ogni animo umano.
Continua il nostro percorso e ciò che la natura e l’accoglienza della gente di terra bosgnacca ci da per rasserenarci ci viene continuamente rubato da questa storia assurda imbastita da un disegno politico incomprensibile. “Perché?” è la domanda che facciamo con più frequenza a chi incontriamo e la risposta è “non sappiamo, non abbiamo ancora capito ma piangiamo i nostri morti”.
Repubblica Serba, Federazione della Bosnia Herzegovina, Distretto di Brcko. Si continua ad oltrepassare frontiere quasi inesistenti ma che radicate nella vita dividono ancora famiglie, tribolano ancora gli animi e ci fanno capire che basterebbe poco per riaccendere l’assurdità del conflitto.
E a Tuzla, importante centro industriale della Bosnia nordorientale, il nostro viaggio della memoria assume anche il significato della partecipazione, incontrando le madri di Srebrenica e marciando con loro lungo le strada della città. Ogni 11 del mese, con qualunque tempo e commovente determinazione, queste donne, spesso rimaste sole con il loro dolore e con grandi difficoltà economiche, chiedono ancora giustizia attraverso questa marcia pacifica e silenziosa, dove a parlare con le vivaci pezze di tela con ricamati (da loro stesse) il nome dei morti e dei luoghi dell’eccidio. “Figli, fratelli, nipoti…sembrano ancora un po’ vicini a noi” ci dicono srotolando quelle catene multicolore.
Quindi di nuovo verso il centro ad incontrare la nobile Sarajevo. Fedele guida della nostra visita sarà ancora una testimone della storia recente, Yasmina, profuga musulmana, che ci accompagna alla scoperta di questa affascinante città sempre in bilico tra Occidente ed Oriente.
Con lei partecipiamo, nel giorno dell’inizio del Ramadan, al rito nella grande Moschea Gazi-Husredbey che ben si sposa con la Torre dell’Orologio, minareto accessorio ed anomalo. In questa città così “mista” si amalgamano perfettamente anche colori, suoni, abitudini così diverse tra loro : in una strada potremmo essere a Vienna ed appena girato l’angolo ti ritrovi nel vivace caos di un souk ad Istanbul. Ancora una volta riviviamo la dimostrazione di come l’essere umano può unire ma con la medesima determinazione riesce a dividere.
Percorriamo l’antico ciottolato del vecchio quartiere turco, Bascarsija con la sua fontana e i suoi piccioni, l’antica Moschea e le vivaci botteghe dei mercanti locali. Saliamo ai bastioni e da quello giallo ammiriamo l’incantevole panorama della città, che ancora però narra del dolore del passato recente : ci si offrono alla vista migliaia di punti bianchi sparsi in immense spianate. Salgono, scendono, si nascondono tra le casa : sono le lapidi dei morti durante il conflitto e sono semplici, come è stato semplice morire per tanti durante la vita di tutti i giorni.
Dalle colline i cecchini miravano nelle strade (famoso è il viale dei cecchini), alle case : nel centro ormai invaso da grandi firme e da ristorazione globalizzata, se non stai attento inciampi ancora nei graziosi decori fatti dalle granate, che l’amministrazione comunale ha voluto dipingere di rosso e chiamare Rose di Sarayevo.
E ancora il conflitto non si fa dimenticare se si abbandona il centro e ci si inoltre in periferia, dove restano ancora fori, le rovine delle case e delle persone : tanti profughi, tanta disperazione e poca reale ripresa. E’ straordinaria la malinconia che Sarayevo ti instilla in questo suo essere continuamente in bilico tra ripresa e disperazione : è una città “blessèe” (ci dice una bosniaca emigrata in Francia) che non riesca ancora a dimenticare la sua guerra e il suo smembramento. E segni tangibili di questa ferita che non rimargina restano al commovente Museo del Tunnel e al Museo di Storia della Bosnia Herzegovina.
E da Sarajevo è difficile allontanarsi e mentre lo fai quei mille puntini bianchi, ciò che resta di intere generazioni, ti accompagnano per sempre nel ricordo di questa terra. L’orizzonte sembra un po’ riaprirsi oltrepassata la Bosnia ed entrati in Herzegovina (i due paesi uniti dalla politica in realtà sentono pochi punti di contatto tra loro, se non i danni rilevanti subiti nel conflitto). Ci si accoglie Mostar con lo Stari Most, ponte fatato, distrutto e ora ricostruito, che così slanciato nel nulla ricorda la luna araba nelle notti d’Oriente. Poi il centro storico, il Museo del Ponte Vecchio, la Torre di Tara, le antiche Moschee del centro e quelle di Bayatova.
Se però ti sposti leggermente dai luoghi delle passeggiate turistiche drammatici sono ancora i danni fatti dalla guerra. Percorrendo l’ex linea del fronte incontriamo case sventrate, mille fori alle pareti e tante macerie ancora che fermano nel tempo il conflitto e mostrano una ricostruzione che lentamente tenta la rinascita della città. Ci racconta Anna che ci ospita nella sua casa, una delle più antiche di Mostar, devastata dalla guerra ed ora parzialmente ricostruita con i denari dei figli emigrati all’estero: ”Sparavano dalle colline granate, scendevano nelle strade e miravano alle case, alle persone. Siamo scappati e abbiamo lasciato tutto. Vedi questa era la nostra casa prima (bellissima ndr) e poi quando siamo tornati…” e le foto, a documentazione dei danni subiti e nella speranza di un risarcimento, sono pesantissime da guardare: non esisteva più nulla, tutto quasi abbattuto come a picconate.
Ma Mostar, con la sua vitalità e la sua armonia, riesce ancora a farti dimenticare le brutture: le belle botteghe d’arte, il ponte dei salti, i souvenirs a buon prezzo ed il calore dei tanti luoghi di incontro dove è facile fermarsi a gustare un buon caffè. E da qui, dimostrazione di una tolleranza sacrificata nel nome di chissà quali idee, si può raggiungere sia un’importante luogo di culto mariano, Medugorye, sia uno dei siti più importanti della tradizione Sufi, il monastero derviscio di Tekija. E mentre Medugorye, luogo di devozione non ancora riconosciuto dalla Chiesa ufficiale, ti accoglie anonimo e caotico e riesce ad affascinarti forse solo per la grande Fede tangibile durante le funzioni religiose, il piccolo monastero derviscio tocca le corde della meditazione e del silenzio con la sua spiritualità raccolta, nascosto nell’incavo di una grotta all’imbocco di una sorgente.
Lasciamo questo paese con tanta malinconia e con l’idea che dovremo tornare per poter essere ancora una volta solidali con la sua gente e testimoni dei tanti cambiamenti che aspettano queste terre, da sempre teatro di giochi politici crudeli e da sempre anche un po’ dimenticati. Ricorderemo i sorrisi e la determinazione delle donne di Srebrenica con il loro dolore mai sepolto, la marcia dell’11 di ogni mese a testimonianza degli eccidi sotto un sole implacabile, lasciamo con rimpianto la cara Yasmina profuga di Mostar, che ci ha accompagnato con i suoi ricordi lungo le vie di Sarayevo.
L’ospitale famiglia di Zeljco, Neda di Mostar, i generosi Boraca, Djani e Andrè di Divic, Nedda Alberghini e le sue Case di Daniele (Associazione che supporta le Madri).
Un grazie a tutti i nostri compagni di viaggio che hanno reso questo “percorso” fonte di conoscenza per noi e che ci hanno fatto comprendere che questo popolo, aldilà delle divisioni sulle carte, si connota come una nazione dove si respira ancora il sentimento raro della solidarietà e dell’accoglienza.
a cura di Carbamitù – www.carbamitu.eu
Produzione Indipendente di Mario Negri e Donatella Penati
Testo di Donatella Penati
Foto di Donatella Penati e Mario Negri