Mostre a Roma, Parma, Bologna: la street art dilaga. Pao, uno dei più noti street artist italiani, ci spiega perché.
Milano, Italia.
Esplode la stagione della Street Art: all’arte urbana sono dedicate due grandi mostre in corso a Parma (Cibus in Fabula, fino al 22 maggio) e a Bologna (Street Art. L’arte allo stato urbano, a Palazzo Pepoli, sino al 26 giugno), la rassegna Memorie Urbane. Street Art Festival che si svolge tra Gaeta, Fondi e Cassino e culmina nei giorni tra il 20 maggio e il 6 giugno, mentre a Milano l’Hangar Bicocca commissiona a Os Gemeos (“i maestri del Rococò sui muri”, per il New York Times) un’opera gigantesca che troneggia all’esterno del Cubo di via Chiese e a Roma apre, a sorpresa, la più grande esposizione di opere dell’ormai celeberrimo Banksy, icona globale dell’arte di strada: Guerra, Capitalismo e Libertà (a Palazzo Cipolla, dal 24 maggio al 4 settembre) raccoglie 150 lavori – incluse 50 copertine di dischi – tra sculture, stencil e altre opere, tutte provenienti da collezionisti privati e, rimarcano i curatori, assolutamente non sottratte alla strada.
Un fenomeno, la Street Art, che ha già cambiato il panorama urbano nelle nostre città: AgendaViaggi ne parla con Pao, uno degli street artist più famosi d’Italia, il primo a farsi largo, giovanissimo, nell’ostile ambiente milanese con i suoi inconfondibili panettoni-pinguini, quando l’underground che a New York e a Londra veniva celebrato da noi invece non era affatto sdoganato e, anzi, veniva osteggiato e considerato trash. In questa intervista esclusiva, Pao (all’anagrafe Paolo Bordino, 39 anni) ci racconta come il suo percorso artistico si stia evolvendo: confrontandosi con le esigenze dei nuovi committenti e sperimentando linguaggi e materiali inediti, la sua “bottega artigiana” si è trasformata in un affermato brand della visual communication e del merchandising.
La street art è la nuova pop art? Questo grande interesse per l’arte urbana durerà poco o continuerà a crescere?
Fin dall’inizio, quando la street art ha esordito sui muri insieme ai graffiti e al writing, questo fenomeno ha pervaso la cultura contemporanea: si è imposto nei media, in tv, e il mondo della moda lo ha subito guardato con attenzione. Perché a differenza del writing, espressione che “parla” solo ai suoi simili e alla propria tribù, la street art invece usa un linguaggio più aperto e si rivolge a un pubblico più eterogeneo. In questo, si collega alla pop art. E come la pop art dialoga con la contemporaneità, anche con il mondo commerciale.
Contaminazioni vantaggiose per l’artista, in senso economico. Ma per l’arte?
Le contaminazioni non mi spaventano, anzi. Come artista mi è sempre piaciuto spaziare tra i generi: dipingo su tela, faccio lavori per strada, e realizzo anche oggetti comuni. Durante la Design Week ho presentato una collezione di bicchieri da birra disegnati in limited edition per la Becks. Da Pinko, in via Montenapoleone, ho realizzato una performance live “vandalizzando” i vestiti esposti in negozio. L’arte è creatività e come tale deve avere via libera, andare dovunque, esprimersi con più strumenti possibile.
Anche… nella pubblicità?
Il dialogo tra mondo dell’arte e mondo commerciale c’è sempre stato. Certo, è vero che può essere rischioso perché la street art è nata come movimento underground e come tale continua a mantenere la sua forza: se diventa mainstream, rischia di snaturarsi. Se dimenticherà i suoi valori e la sua carica iniziale, cioè la forza della denuncia e la volontà di cambiare il contesto urbano e di rendere più vivibile l’ambiente metropolitano, avrà perso: una street art innocua e inoffensiva è insignificante. Il lato positivo della medaglia è che la maggiore apertura da parte delle istituzioni e delle aziende alla street art ha fatto sì che tante facciate cieche dei palazzi non siano state coperte da cartelloni pubblicitari e siano diventate, invece, occasioni straordinarie per abbellire la città attraverso la creatività degli artisti: così, la carica propulsiva iniziale della street art, che puntava a una riappropriazione dello spazio urbano, effettivamente ha portato a risultati positivi. Grazie alla street art le nostre città oggi sono più colorate, più a misura d’uomo.
Sono ancora in molti, però, a torcere il naso di fronte a un graffito…
Sì, ma rispetto a qualche anno fa il clima è completamente cambiato. Oggi nei confronti della street art c’è grande attenzione, anche se la Cultura ufficiale e la politica hanno spesso un atteggiamento “schizofrenico” nei confronti del movimento. D’accordo, parliamo di un movimento eterogeneo al massimo, perché comprende sia il ragazzino senza arte né parte che se ne va a vandalizzare i muri della città spinto solo da un intento trasgressivo, sia artisti già riconosciuti anche in ambito internazionale. Però i Comuni usano due pesi e due misure: da un lato concedono volentieri spazi agli street artist quando c’è da riqualificare una zona e auspicano un intervento creativo su un muro decrepito o sulla facciata di un edificio scolastico, dall’altro non si fanno scrupoli a mettere in pratica azioni intransigenti e inutilmente poliziesche per contrastare i graffitari. Ma venti anni di tolleranza zero anti-graffiti che risultato hanno prodotto? Basta guardarsi intorno: Milano è una delle città più “graffitate” e sporcate d’Italia. Di contro, la maggior apertura di questi ultimi due-tre anni ha fatto sì che in giro ci siano più muri interessanti: di questo passo, diminuirà il peso e lo spazio per le azioni puramente vandaliche.
Intanto l’Hangar Bicocca e le gallerie più importanti ingaggiano street artist di grido.
Quando la street art diventerà una forma d’arte completamente accettata, a quel punto emergerà solo chi ha qualcosa da dire. La street art però può anche veicolare un messaggio forte, anticapitalista e antisistema: sono pochi quelli che riescono a rimanere duri&puri e autonomi, pur accettando commissioni. C’è una parte di street art che giustamente rimane, e secondo me deve rimanere, di contestazione pura.
Anche a lei sono stati commissionati molti lavori di recente, vero?
Da poco ho finito il nuovo muro della Fabbrica del Vapore, a Milano. Poi ho realizzato un set di bicchieri per la Becks, ed è stata una bella sfida: riuscire a incastrare la tua vena artistica con le esigenze di un brand internazionale, realizzare qualcosa di nuovo e di creativo ma con ingredienti già forniti è stato un po’ come uscire dalla mia “zona di confort”. Anche questa, come le collaborazioni con Gatorade e Harley Davidson, è stata bella sfida, che mi ha fatto crescere.
Sperimenta anche altri materiali?
Per me, cambiare e provare vie nuove è sempre stimolante. Dipingo su tela, uso lo spray per i muri, faccio video, lavoro con la vetroresina…
Dove trova l’ispirazione?
Come tutti, guardo ai Maestri della storia dell’arte… ma di certo mi hanno influenzato molto Keith Haring, Andy Warhol, Urakami. Ed Escher, che mi piace tantissimo per gli schemi e i riferimenti matematici che applicava nel dipingere, schemi e formule che anch’io nascondo nelle mie opere. Cerco sempre di impostare differenti livelli di lettura: uno più immediato e giocoso, l’altro più sotteso e critico.
Progetti per l’immediato futuro?
A settembre ho una mostra personale ad Ancora. A novembre presenterò una serie di 8 video per piazza Mercanti, a Milano: sono video divulgativi sulla storia della piazza che io dovrò animare con disegni, per rendere la narrazione più coinvolgente. Perché in piazza Mercanti davvero ogni muro nasconde una storia: quelli sono muri che parlano, raccontano storie incredibili alla gente che passa. Proprio come la street art.
Ermanno Lucchini
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