Manuela Mancino ci racconta le sue emozioni a contatto con un luogo speciale, Grottaglie. La sua storia le sue bellezze e i suoi protagonisti.
Grottaglie, Italia.
Ho trovato il mio posticino in una Puglia inedita. Non è la rossa piana del Salento, non sono le cummerse del borgo di Locorotondo, né il dedalo di vicoli di comuni della Val d’Itria o gli emozionanti panorami della Penisola garganica.
È Grottaglie: strade del centro che si confondono con la campagna circostante, murales che raffigurano protagonisti dei cartoon d’antan, squarci dal fascino antico e ceramiche, sempre e ovunque. Come insegne di esercizi commerciali, come decorazioni a muro, come simpatiche ed eleganti mattonelle. Si scopre, camminando, un quartiere dedicato ad un’arte che qui ha origini antiche, dove il tempo sembra essersi fermato, dove ogni attività è cadenzata da ritmi giustamente più tranquilli; dove i colori sono quelli di una natura generosa e di un’architettura che strizza l’occhio al vicino Oriente. Dove gli odori sono quelli dell’argilla umida e delle cucine di casa, e lo scorrere del tempo è cadenzato solo dal tornio. Quel piacevole sottofondo che si sente o ci si convince di sentire passeggiando tra le numerose botteghe. Non si farebbe fatica a paragonare quest’angolo di Grottaglie ad un tipico scorcio dei presepi di scuola napoletana, se non per un composto equilibrio – di gente, scalinate e terrazze dalla vista emozionante – che qui sembra procedere incurante della frenesia quotidiana. E non già perché gli abitanti non siano gente adusa alla fatica, ma per una sorta di radicato rispetto verso l’anima più profonda del paese che rappresenta il cuore pulsante dell’abitato, custode com’è di antichi saperi. Se le strade dintorno sono affollate di studenti, lavoratori e famiglie sin dalle prime ore del mattino, nel quartiere delle ceramiche, invece, la sana operosità pare confondersi con quell’intelligente imprenditorialità che lascia, talvolta, il passo ad una indiscussa vena artistica. È una sorta di suq nel quale interpretazioni fondamentaliste dell’artigianato locale si fondono armonicamente con proposte più “turistiche”, con giovani rappresentanti della nouvelle vague e ambasciatori custodi di antichi mestieri.
Tra i primi, si scopre – oltre il già affermato Giorgio Di Palma – la meno “nota” (fuori regione) ma non meno talentuosa Annamaria Quaranta. Basta, infatti, incontrarla nel suo laboratorio per rendersi immediatamente conto della sua storia e di quanto per lei il suo lavoro sia un “back to basics” che noi traduciamo in un ritorno convinto alle tecniche di un tempo. Nipote dello storico ceramista Gaetano Fasano, il mondo delle ceramiche per lei non è solo “metodo” ma l’emozione di rivivere costantemente la sua infanzia, quando il fumo dei comignoli in funzione l’affascinava inspiegabilmente, quando gli odori ed i colori delle creazioni allietavano anche le giornate più tristi. Archeologa e convinta sostenitrice del rispetto della natura, trae ispirazione da ogni elemento: dai suoi studi con disegni che molto hanno di preistoria, dall’ambiente circostante, dalle persone che osserva dalla sua posizione privilegiata.
A contraddistinguere i suoi lavori, infatti, è l’assoluta originalità del pensiero, delle forme realizzate senza l’ausilio di pre-stampati (ma totalmente manuali), dalle linee eleganti e per la tecnica di cottura raku. Di origine giapponese e nata per celebrare la cerimonia del the, prevede una seconda cottura a temperature elevate (900-1000° C), in un apposito forno e un immediato successivo raffreddamento in un contenitore pieno di materiale combustibile, in modo da conferire peculiari riflessi metallici, brillanti e iridescenti. Parla dunque del fascino dell’ancestrale e dell’alchemico, così come le ceramiche di Annamaria parlano di lei, della sua irrefrenabile passione per le arti e della sua genialità. Di quella genialità figlia di un animo curioso, di una mente da viaggiatrice, di una sensibilità rara e di una capacità di condensare la sua indole poliedrica in “pezzi unici”.
Tra gli interpreti di un pensiero senza tempo, si scopre piacevolmente Cosimo Vestita, con la sua filosofia ed il suo percorso.
Esistono storie note e altre diversamente uniche, fatte di passione, ritualità e sguardi che diventano tradizione, filosofia di vita e codificazione di un metodo. Storie che vanno vissute per poterne cogliere appieno l’essenza. Perché quella routine frenetica che distoglie lo sguardo finisce per distogliere anche la mente, allontanandola sempre più dal contatto con la realtà e, dunque, dal pensiero. Si resta infatti tra lo stupito e l’attonito, un po’ come “Alice nel Paese delle meraviglie”, nell’oltrepassare la bottega di Cosimo (per gli amici, Mimmo) Vestita, un luogo non luogo in cui ordini da evadere, opere ultimate e da ultimare sono fuse in un mosaico armonico, per quanto ogni singolo tassello possa apparentemente sembrare confuso o sfuocato. Ma la conoscenza diretta e una piacevole (lunga) chiacchierata con il Maestro conferma l’impressione iniziale di una inusuale uniformità d’insieme e rafforza la consapevolezza su quanto taluni interpreti dell’arte regalino la gioia di un confronto con menti creative, animate da animo nobile. Ceramista da generazioni, il suo sguardo trapela gli anni vissuti tra torni e argille, tra forni e colori; rivela la sua inclinazione ad un’acuta osservazione, la sua capacità critica figlia di decenni di studi teorici ed empirici, prove e controprove, difficoltà e successi. Plasma l’argilla con grande rispetto, seduto a quel suo tornio in un angolo della bottega dal quale la prospettiva si apre su file di ceramiche in un equilibrio millimetrico. Ma a stupire è decisamente Casa Vestita, con un fascino segreto ed ammaliante capace di rapire chiunque: dall’avventore colpito dalla compostezza del colonnato e dai profumi del giardino ottocentesco, all’esperto basito dalla perfezione delle linee di una chiesa rupestre medievale, al bambino affascinato dalla pianta di fico d’india di dimensioni fiabesche o dall’intreccio di mosaici e resti paleolitici disposti elegantemente da Cosimo in un percorso unico. Unico non solo per la profondità e varietà degli oggetti in esposizione, ma per un’atmosfera a tratti fiabesca, per quel percorso fortemente emozionale che riporta indietro nel tempo e di fronte il quale la penna umilmente arretra.
E così, chiudendosi l’uscio alle spalle, si abbandona Casa Vestita nella speranza di ritornarci quanto prima…Come capita con i sogni: il desiderio di non riaprire gli occhi e ritornare alla routine quotidiana.
Manuela Mancino