
SUDAFRICA: NOTE DA UN VIAGGIO
Cape Town, Sudafrica.
Primavera in Sudafrica, dall’altra parte del mondo. Mentre l’Europa si addentra nell’inverno, qui sboccia la nuova stagione della natura. Il passaggio dall’inverno all’estate, quella bella stagione di mezzo che sembra ormai scomparsa da noi, qui rivive in tutto il suo splendore. Il cielo tersissimo, con solo qualche sbaffo di nuvole bianche, i prati verdissimi, gli alberi in fiore. Il volo intercontinentale arriva a Johannesburg. Della sua origine di città mineraria, conserva ancora, negli immediati dintorni, ai limiti delle periferie, quelle brulle colline basse di terra di scavo, arida e gialla, blocchi alti e squadrati di materia macinata dalle macchine dei minatori che nello scorso secolo ne estrassero l’oro, sulle quali non cresce erba. Testimoniare di un passato che trasformò questa vallata nell’Eldorado africano.
Città caotica, trafficata e disordinata, Johannesburg non merita più di una giornata di sosta. Si lascia per atterrare nel caldo afoso del Kruger Park. Con i ranger, tutti pronti, si va subito alla scoperta del parco, una delle più grandi e antiche aree di conservazione al mondo. Qui non ci sono recinti, non ci sono difese, il faccia a faccia con quello che sopravvive della madre Africa si compie attraverso l’unico diaframma di un pullmino. E ti senti civilizzato, ti rendi finalmente conto dell’enorme distanza che c’è fra te e loro, dove loro sono tutti gli animali per i quali ripudi la barbarie del circo e la prigionia dello zoo. Ma il faccia a faccia senza sbarre comunque intimorisce e sgomenta. All’inizio, si fatica a cogliere i limiti reali della condizione umana, ti illudi quasi di essere sul set di un grande film africano, o nelle pagine di un romanzo di Wylbur Smith – la natura del grand-air, dove l’uomo ristrova il suo posto. Ci vuole solo un po’di tempo, però, per riscoprire l’umiltà, e sentirsi ospite in un mondo di sopravvissuti, che, forse solo inconsciamente, rivendicano con energia e rabbia un ruolo di protagonista. Il Kruger si prepara all’estate, ma benedice l’inverno non ancora passato. Il tempo mette al brutto: un diluvio; gli animali in corsa incalzati dalla pioggia sollevano enormi nuvole di polvere, e arriva la grandine, chicchi enormi come palline da ping pong. Ma l’aria è già calda e dolce.
È bellissima la Provincia del Capo. L’aria è subito diversa – profumata di mare, tersa, pulita; le giornate più lunghe; più intima la vicinanza all’Europa. L’interno, colonizzato più di trecento anni fa dagli Ugonotti francesi, è verde di vigneti, colorato del rosso delle stelle di Natale, le poinsettia, che qui sono alte come alberi; del violetto intenso dei jacaranda e del rosa azzurrato delle ortensie, che fioriscono proprio ora; profumato delle rose di giardino, che si aprono senza pudore nelle siepi lungo le belle case nello stile tipico della regione, il Cape Dutch, alto frontone ornato delle case bianche. E qua e là i tipici tetti di paglia pettinata, che tanto costano di assicurazione contro gli incendi.
La gita più bella scende al Capo di Buona Speranza. Il paesaggio che si attraversa è stupendo – verde, le montagne aspre e scabre, le baie di sabbia bianchissima con l’onda lunga sfruttata da rari surfisti. Sulla destra l’Atlantico si rompe su spiagge bianche bianche, lunghe lunghe; sulla sinistra la roccia, le cittadine, i villaggi di vacanza, tutti con quell’aria di libertà che hanno i posti scoperti dagli inglesi quando non sono in Gran Bretagna. Gente che passeggia, porta a spasso il cane, fa jogging, respirando l’aria salmastra. Si arriva alla Riserva del Capo: una mangusta attraversa la strada; uno struzzo corre in lontananza nella macchia; la fortuna dell’avvistamento di un piccolo gruppo di Bontebok, specie di antilopi originarie della zona; infide colonie di babbuini che ti bloccano il cammino e di cui si raccontano aneddoti terrificanti (“chiudere assolutamente i finestrini”, perchè magari si infilano dentro, mordono tutti e non se ne vanno più). Ma la riserva, circa 8mila ettari, è nata soprattutto per proteggere la flora. Con un vento che tira a non si sa quanto all’ora, qui prospera una macchia fitta, bassa e un po’ uniforme, illuminata qua e là dal malva dei pelargonium, il bianco dei semprevivi, il giallo delle protea “puntaspilli”. E si aspetta la fioritura delle altre specie di protea, fiore simbolo del Sudafrica.
Poi è l’emozione del Capo. Lo spettacolo dei mari si mantiene superbo: i turchesi e gli azzurri acquamarina dell’Atlantico suggeriscono il bianco della sabbia dei fondali, come conferma la piccola spiaggia nella baia immediatamente precedente il Capo. Di fronte, le acque dell’Indiano, sormontate da immense falesie a testa piatta, sprofondano di blu intenso e cobalto, mentre non si riesce a leggere il distacco con il viola dei monti, celato da una nebbia iridata, arcobaleno a pelo d’acqua che riposa lo sguardo, evocando suggestioni di favole antiche.
L’ultima immagine Cape Town, bella, elegante, dominata dalla mole massiccia della Montagna della Tavola. Quest’anno, è la città da non perdere, Capitale mondiale del design. Un riscatto iniziato vent’anni fa con rinnovamento del Waterfront, vecchia area del porto, adesso meeting point di cittadini e turisti, dove si mangia, si compra, si prende il sole, ci si diverte a tutte le ore del giorno e della notte, sette giorni alla settimana.
Marina Poggi