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Shirin Neshat tra splendore e protesta: è tutto oro quello che luccica?

Al Pac di Milano dal 28 marzo all’8 giugno l’apprezzatissima mostra dell’artista e attivista politica iraniana Shirin Neshat The body of evidence. Forse un po’ troppo apprezzata.

Milano, Italia.

Suggestiva e leggermente ipnotica la mostra The body of evidence di Shirin Neshat al Pac di Milano, dal 28 marzo all’8 giugno 2025.

La più grande personale dell’artista iraniana in Italia si compone di fotografie e cortometraggi che illustrano le varie fasi del suo lavoro nel corso dei decenni.

Women of Allah

Come l’autrice stessa dichiara in una intervista pubblicata sul sito del museo, non avrebbe mai immaginato di occuparsi di arte da professionista e invece, 11 anni dopo aver lasciato la sua famiglia per diplomarsi negli Stati Uniti, il suo ritorno in patria dopo la Rivoluzione khomeinista la scosse a tal punto da creare il ciclo Women of Allah, dal 1993 al 1997. Visi, mani, dettagli di donne (anche di se stessa), talvolta affiancate a fucili, in un rimando continuo tra vittima e carnefice, oppressione e resistenza, in cui i centimetri di pelle che restano scoperti dal chador sono coperti di scritte calligrafiche in lingua farsi, citazioni di scrittrici iraniane.

The Book of Kings

Un concetto simile attraversa la serie fotografica The Book of Kings del 2012, quasi venti anni dopo, dove sono ritratti in potenti primi piani i giovani del Green Movement iraniano del 2009, come reazione alle elezioni presidenziali del leader conservatore Mahmūd Ahmadinejad. Anche qui le scritte vergate a mano sopra la superficie fotografica riportano frasi e illustrazioni del poema epico patriottico Shahnemeh, del 1000 d.C., del poeta iraniano Ferdowsi.

Land of Dreams

Sono le serie più famose di Shirin Neshat ma c’è anche un’intera sezione dedicata a una carrellata di ritratti direttamente dalla profonda provincia americana durante l’ascesa di Trump, Land of Dreams, del 2019, collegata a due video che girano in loop, in cui la protagonista, l’attrice iraniana-americana Sheila Vand, alter-ego di Neshat, illustra il suo lavoro di fotografa studentessa di arti visive incaricata dalla sua università di realizzare i ritratti a casa delle persone ma in realtà è misteriosamente impiegata in una specie di “fabbrica di sogni” che cattura e cataloga i sogni della gente. Un’iniziativa dal risvolto sinistro.

La denuncia della condizione della donna

I cortometraggi seguono anch’essi la parabola dell’artista e, ad eccezione di Soliloquy, del 1999, in cui l’autrice compare anche come attrice che, da due schermi rivolti l’uno verso l’altro, interpreta/rivede se stessa, in senso ampio, nei contesti occidentale e orientale (con le architetture e le fedi religiose tipiche dei due contesti, in egual misura asfittiche e incapaci di darle le risposte di senso che cerca), sono tutti ossessivamente incentrati sulla denuncia della condizione femminile in Iran e della diseguaglianza di genere, dove la donna è di volta in volta vittima di violenza psicologica, morale, sociale e, nel caso del cortometraggio The Fury (del 2023) anche fisica, da parte dei miliari della polizia islamica.

A tema nel cortometraggio Passage, del 2001, invece, è la celebrazione della morte, con toni quasi grotteschi (benché la netta contrapposizione, anche cromatica, tra uomini e donne sia sempre presente)

Una protagonista femminile spaccata a metà

La protagonista dei video di Neshat è spaccata, si sente straniera sia nel “nuovo mondo” a cui approda sia in quello da cui proviene, con il suo bagaglio di valori che la respingono.

I sodalizi artistici

Un apporto importante è dato dalla musica; alcuni di questi lavori segnano l’inizio di una collaborazione stabile con il compositore statunitense Philip Glass e la cantante e compositrice iraniana Sussan Deyhim.

Un tono ossessivo

Il tono di queste opere, sia fotografiche che filmiche, è volutamente ripetitivo, ossessivo, quasi disturbante. Sotto lo sguardo serio e compiaciuto dei colti spettatori, certamente qualcuno, avendo cura di non darlo a vedere, ha pensato: “Non ne se può più”. Le differenze culturali condizionano la percezione dei ritmi e della poetica, certo, tuttavia un messaggio è efficace e non stanca mai se è unico e non ripetuto più e più volte, variandolo di poco. 

Una protesta addomesticata

È un giudizio impopolare: Neshat è apprezzatissima e conosciuta in tutto il mondo; ha esposto nelle più note gallerie di New York, Bruxelles, Seul, Londra, Parigi, Johannesburg e vinto molti premi. E proprio questo dovrebbe destare qualche sospetto. Non sarà la sua una protesta addomesticata? L’altra faccia del mainstream? Che tutto sommato fa comodo, perché conferma lo stereotipo della donna araba misteriosa, truccata con spesse righe di kajal e, d’altra parte, si scaglia contro l’America di Trump e la sua “cultura suprematista bianca”? Dov’è la novità: non la pensano tutti così? 

Photo Elena Borraviccio. Courtesy of PAC di Milano

Elena Borravicchio

Elena Borravicchio

Laureata in Filosofia, giornalista pubblicista, moglie, mamma. È di Torino ma vive a Monza, dopo un periodo in Brasile e un altro ad Abu Dhabi. Ha una passione connaturata per la scrittura, suo canale espressivo privilegiato, insieme alla danza e alla fotografia. Ama il teatro, l'arte, la musica e tutto ciò che fa vibrare l'anima. È nelle librerie il suo primo romanzo, “Guardandoti ballare”.

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