
Viaggio nel mondo dell’Executive Chef Ivan Fargnoli

L’Hilton Molino Stucky di Venezia
Una passione, quella per la cucina, che Ivan Fargnoli, nuovo executive Chef dell’Hilton Molino Stucky di Venezia, ha ereditato dalla famiglia d’origine, dove il senso dell’accoglienza era forte e la condivisione del piacere del cibo era un gesto naturale e ricco di sapori.

A destra l’executive Chef Ivan Fargnoli
Venezia, Italia.
Non a caso in molte commedie (prima greche e poi latine) il personaggio del cuoco era il protagonista della scena, una figura sempre attraente e coinvolgente. Oggi per noi il palcoscenico è la cucina del Molino Stucky Venice e il protagonista è l’executive Chef Ivan Fargnoli che intervistiamo per Agenda Viaggi, attraverso un viaggio che ci porta alla scoperta della sua cucina, un mix tra tradizione e innovazione dai sapori classici italiani ai sapori e profumi dell’Oriente, un’esperienza culinaria unica.
Come è arrivato ad occuparsi di cucina?
Grazie alla mia famiglia. Mio padre era del Sud Italia, di Caserta e aveva una grande famiglia composta da molti fratelli e sorelle; lui e in particolare mia zia mi hanno insegnato a cucinare e trasmesso la passione per la cucina.
Il primo piatto che ha cucinato?
Nello specifico non lo ricordo, ma comunque una pasta al ragù o una pasta al pomodoro.
Il primo errore da chef?
Di errori ne ho fatto tanti, uno in particolare non lo ricordo, ma sicuramente quando ero stagista. All’epoca la cucina era molto diversa, il lavoro era più duro di adesso e gli chef erano molto più severi, qualsiasi cosa facevi di sbagliato poi dovevi impegnarti molto per recuperare. Adesso la cucina è totalmente cambiata, se tratti le persone come una volta non puoi più lavorare in questo mondo. È comunque un mondo dove prima di tutto devi avere passione e poi comporta tante ore di lavoro, tanta ricerca, tanto background; non si tratta soltanto del piatto che porti a tavola, c’è tanta ricerca dietro, tante prove per arrivare a quel piatto che comporta tanta fatica per raggiungere certi risultati.
Una nonna casertana protagonista in cucina e la sua lunga permanenza in Cina con una moglie figlia del Sol Levante, quale delle due realtà hanno maggiormente influenzato la sua cucina?
Sicuramente l’Asia e la Cina hanno influenzato tanto. Sono arrivato in Cina che avevo appena 20 anni, prima sono stato due anni e mezzo a Dubai e prima ancora in Europa, in Italia alla fine ho lavorato pochissimo.
Primi stage in Italia poi a Ginevra (mia madre è di Ginevra), lì ho fatto lavori stagionali in bar e ristoranti. Il primo grande contratto l’ho preso al Grand Hyatt di Dubai.
Poi da lì sono stato un pò in Italia, un pò in Europa e in Medio Oriente e mi mancava la parte asiatica e all’epoca la Cina era la città più evoluta, e lo è ancora adesso.
C’è tanta influenza cinese nella mia cucina. La Cina è per me il mio secondo paese, mia moglie arriva da lì, abbiamo tante cose in comune da quelle parti e quindi ci torneremo sicuramente.
Poi la cucina cinese è molto interessante, non è simile a quella italiana, però ha il concetto di cucina, di famiglia, il concetto dello sharing sul tavolo, sedersi e mangiare tutti insieme è molto vicino a quello italiano. Anche per quanto riguarda i sapori, dal Nord al Sud della Cina i sapori sono diversi proprio come in Italia. Ad esempio, io che ho lavorato anche in Danimarca, lì la cucina è simile da tutte le parti. Quindi sì l’Asia in generale mi ha influenzato molto, poi sono innamorato anche della cucina indiana, sto facendo dei corsi di cucina indiana perché mi piace molto. Solitamente nel mio staff di cucina c’è tanta parte asiatica, ci piace ricercare quella spezia, quel profumo. So cucinare cinese ma prendere dei prodotti o fare dei piatti italiani con quel twist, quell’odore, quel sapore orientale che non si trova dalle nostre parti.
I pregiudizi sul cibo che più la infastidiscono?
Mi dà fastidio soprattutto all’estero come considerano la cucina italiana, quando ad esempio parli con uno straniero e gli dici che sei italiano e ti dicono “ah sì, pizza, pasta”. Mi dà proprio fastidio, perché c’è tanto della cucina italiana, non è solo quello.
Poi se vai all’estero considerano italiana la pizza di “Pizza Hut” ma non è italiana, è americana.
La superficialità che c’è sulla cucina italiana in generale mi infastidisce perché c’è veramente tanto della cucina italiana.
Nel suo percorso professionale ha incontrato lo Chef Emmanuel Souliere, cosa le ha lasciato?
Ho fatto quasi tutto il mio percorso con chef francesi, ho una buona base francese, poi l’ho presa in alcuni punti e l’ho lasciata in altri perché è una cucina anche molto pesante, tante salse; però è Emmanuel che mi ha cresciuto, è stato il mio mentore da quando sono entrato in Cina fino ad oggi; è venuto a trovarmi tre settimane fa qui a Venezia e ci teniamo in contatto ed è lui che mi ha fatto crescere professionalmente.
Mi ha fatto imparare tutte le basi, da come rispettare il prodotto, andare nei mercati, capire qual è quello giusto, le cose più fresche possibili, mi ha dato consigli sul’impiattamento, non mettere più di 3 o 4 elementi in un piatto, il sapore deve essere bilanciato tra acidità e zucchero. Poi il mio percorso professionale nel diventare Executive Chef l’ho imparato anche da altri chef quindi ho mischiato quelle cose lì, però le basi me le ha fatte imparare lui.
Tre parole per descriversi a qualcuno che non la conosce
Sono molto solare, guardo sempre con positività le cose. Ad esempio, se all’Aromi un servizio è andato male, cerco di non abbattermi, può capitare la giornata sbagliata. In generale sono sempre contento, positivo e cerco sempre di fare il meglio poi siamo umani possiamo sbagliare.
L’idea di unire la ristorazione all’hotellerie porta buoni risultati? E secondo lei bisognerebbe apportare qualche cambiamento?
Sicuramente sì, ho letto vari articoli di business, economia, adesso si sta investendo tanto sugli hotel, prima si investiva sugli uffici, sul mattone su vari appartamenti, adesso in tanti vogliono aprire hotel. E dentro l’hotel ci deve essere tutto quel servizio di ristorazione come qui da noi. Noi qui abbiamo 3 ristoranti e la cosa importante è diversificare l’offerta.
Quando sono arrivato al Molino abbiamo fatto prima di tutto un lavoro di ricerca. Ad esempio, il “Bacaromi”, il ristorante di fianco all’”Aromi” è stato chiuso per due anni e mezzo quindi ha perso tutto il business e la clientela che aveva un tempo. Al mio arrivo siamo andati veramente a vedere com’erano i veri Bacari qui a Venezia, quelli famosi. Il Bacaro è una cucina che è stata importata qui a Venezia dagli spagnoli e dai portoghesi perché i cicchetti sono come delle tapas praticamente. Il “Bacaromi” è veneziano quindi mi son detto facciamo solo cose veneziane e facciamo i cicchetti fatti bene; prepariamo poi l’anatra, il pesce fresco, andiamo a prendere il prodotto quasi a chilometro zero. Abbiamo dei pescatori che ci mandano messaggi all’una e mezza, due di notte indicandoci quello che hanno pescato e scegliamo così il pescato del giorno. Nel “Bacaromi” ci sono infatti i piatti “special of the day”, quindi specialità del giorno e lì facciamo quel lavoro di chilometro zero. Cerchiamo quindi di investire sulle persone locali che purtroppo stanno perdendo il lavoro per colpa delle compagnie internazionali; aiutare quindi il pescatore che va a pescare il pesce fresco e poi lo vedi che arriva qui ogni mattina con la sua barchetta.
E poi abbiamo l’Aromi che è il ristorante gourmet e stiamo cercando di fare un lavoro di ricerca del prodotto di alta qualità e lavorarlo rispettando il prodotto, prendendo quelle spezie, quella mentalità mia di cucina e metterla sul piatto.
Una cena a quattro mani. Chi vorrebbe al suo fianco?
Vorrei senza dubbio Emmanuel Soulière al mio fianco è lui il mio mentore, però se posso scegliere allora è Marco Pierre White uno degli chef con cui mi piacerebbe lavorare una serata.
I prodotti e i luoghi della Venezia classica e popolana che hanno contagiato la sua cucina?
Non c’è un prodotto che mi ha condizionato ma è proprio fare la ricerca del prodotto più fresco possibile come al “Bacaromi”, andare nei piccoli mercati, dal piccolo fruttivendolo, dal pescatore che ti da veramente il prodotto fresco, di qualità, lo tocchi, lo vedi, ti piace e lo prendi.
Oramai già da anni nuove tendenze alimentari si impongono nella scelta del cibo: macrobiotica, vegana, etc. Cosa ne pensa e come si comporta?
Sicuramente il vegano, il vegetariano è un trend che sta salendo tanto. Io non sono un grosso fan del vegano, del vegetariano lo capisco, comunque nel 2023, leggendo anche degli articoli, delle analisi che sono state fatte, è un trend che comunque salirà tanto nei prossimi anni. Tante persone stanno eliminando la carne e hanno ragione perché la carne non fa bene, in particolare il manzo non fa bene a noi, anche per come sono trattati gli animali. Ci stiamo quindi spostando su piatti a base vegetale e sicuramente è un trend di cui dobbiamo porre l’attenzione e iniziare a farlo anche noi. Allo Skyline Lounge ci sono già piatti a base di insalate, quindi cibo molto healthy, molto salutare ed è importante perché fra 2,3,4 anni diventerà probabilmente il fulcro.
L’aveva già teorizzato Manuel Vàsquez Montalbàn, scrittore e gastronomo spagnolo, nelle sue “Ricette Immorali”: il cibo è seduzione. È d’accordo?
Sì sì son d’accordo, il cibo è arte. Per me dietro ogni piatto c’è una storia. Poi ti può piacere come non ti può piacere però sì il cibo è seduzione son d’accordo.
Cosa le piace mangiare?
Io mangio tanto quello che cucina mia moglie, e mia moglie cucina cinese, mi piace molto. Poi se devo scegliere sicuramente un bel piatto di pasta al pomodoro, ma in linea generale mangio cose molto semplici.
Quando crea un piatto c’è un messaggio che vuole trasmettere?
Sicuramente. Su tutti i piatti c’è sempre un ricordo. Nel ristorante “Aromi”, ad esempio, c’è il risotto oppure il tiramisù che sono ricordi di infanzia. Io sono cresciuto con una tata che mi cucinava il risotto e che puntualmente bruciava tutte le volte, ma bruciato proprio. E io andavo a cercare quello che c’era attaccato sotto, quell’amaro di bruciato.
Nel piatto che propongo all’Aromi c’è il risotto al parmigiano reggiano con polvere di caffè sopra e limone, il dolce del parmigiano reggiano e l’amaro del caffè a me ricorda la mia infanzia e di quando la tata mi cucinava quel risotto lì.
La stessa cosa col tiramisù. Io ero intollerante alle uova e la mia tata me lo faceva senza uova, faceva la crema con il mascarpone con dentro il caffè, un pò di marsala, savoiardi e alla fine mi metteva queste caramelle che frizzavano. Son tutti ricordi e per me sono importanti.
Qual è, secondo lei, la cucina del futuro?
La cucina del futuro sarà sicuramente a chilometro zero e senza sprechi. Da noi, ad esempio, vengono i frati a prendersi parte degli sprechi che facciamo. Cerchiamo comunque di fare meno spreco possibile e comunque di riutilizzarlo come alcuni scarti di verdura che mettiamo in bottiglie con acqua e zucchero e ci facciamo dei lieviti, oppure le bucce di patate che riutilizziamo per fare delle chips. Cerchiamo di fare un lavoro di sostenibilità visto che la cucina prenderà quella direzione.
Sono convinto poi che un ristorante da tre stelle Michelin sparirà in futuro perché non è più sostenibile. Una stella Michelin forse sì, ma per avere un ristorante con tre stelle Michelin devi avere 30, 40 persone in cucina e butti via molte cose, quindi non sarà più sostenibile come business e come prodotto.

Il Moro oceanico australiano
Perché è così orgoglioso del “Moro oceanico australiano”?
Perché è un prodotto dove ho fatto una ricerca di quasi 1 anno, è un prodotto unico, solo là si pesca, si trovano pesci simili ma non è la stessa cosa. Il Moro Oceanico non è tanto conosciuto però è un prodotto veramente di valore, di qualità.
Come lo è anche la zuppa d’anatra è un altro prodotto dove c’è stato un lungo lavoro di ricerca per arrivare a quel sapore lì, quelle spezie, quel piccante che non è troppo. Ti arriva prima il dolce dell’anatra e poi il piccante dietro. Abbiamo fatto veramente tante prove per arrivare a quel piatto lì.
Moda e cucina, un legame che unisce bellezza e creatività. Alcuni chef, oramai star, lanciano mode, creando piatti che, come gli abiti, dettano il loro stile nelle varie reti televisive. Secondo lei è un eccesso, oppure è la creatività che non ha limiti?
Per me è un eccesso. Per me c’è il concetto “back to basic”, fai le cose fatte bene, ritorna alle tue origini, ritorna a fare quello che sapevi far bene, non esagerare. Adesso tutti vogliono fare lo chef dopo che sono uscite quelle trasmissioni in televisione tipo MasterChef ma non è così, per fare questo lavoro ci vuole passione, devi spendere tanti anni per arrivare a certi livelli.
Quali i suoi obbiettivi nel prossimo futuro?
Il mio prossimo futuro è qua. Far tornare ai massimi livelli questo hotel, come lo era un tempo nel mercato di Venezia; è sceso un pò negli ultimi anni quindi l’obiettivo è di riorganizzare tutto il lavoro con il mio team, ridare quindi una nuova struttura, una nuova vita e una nuova storia ai ristoranti del Molino Stucky. In futuro poi sicuramente tornerò in Cina, credo che andrò in pensione in Cina.
Nei suoi viaggi c’è qualcosa che non dimentica mai di portare in valigia? C’è un luogo che consiglierebbe ai nostri lettori?
No, normalmente viaggio leggero senza valigia ma solo con lo zaino.
Un luogo che mi sento di consigliare è sicuramente casa mia in Cina. Si tratta di un posto molto tranquillo, c’è un lago con le montagne dietro e poi il giardino. È un posto dove rilassarsi, io poi che leggo molti libri di cucina e non solo, mi piace staccare e rilassarmi lì.
Tante idee di piatti poi mi vengono camminando per strada, annusando quel sapore oppure guardando qualcosa mi viene l’idea che appunto su un quaderno e il giorno dopo vedo un attimino cosa ci posso realizzare. Qui tutte le sere vado a farmi una passeggiata alla Giudecca oppure vado a Venezia a riflettere su come è andata la giornata, cosa è andato storto e cosa invece è andato bene e faccio il punto della situazione per cercare sempre di migliorarmi e dare sempre il massimo.
Credit foto dall’alto, Courtesy by Molino Stucky Venice (3). Andrea Bezdikian.