ATTRAVERSO GLI OCCHI DI ELIAS CANETTI, RECENSIONE A “LE VOCI DI MARRAKECH”.
Marrakech, Marocco.
Nell’attesa di tornare a viaggiare e di visitare nuovamente (io ci sono stata numerose volte) un paese splendido, il Marocco, un modo per assaporarne gli odori, i vicoli, l’atmosfera è leggere un libro breve, ma molto intenso. Si intitola “Le voci di Marrakech” di Elias Canetti, premio Nobel per la Letteratura nel 1981. Canetti soggiornò a Marrakech nel 1954, dunque in un periodo lontano, in un tempo apparentemente molto distante dal nostro.
In realtà Canetti offre nel suo libro una visione di una città che è sicuramente molto mutata nel corso dei decenni, ma che ha mantenuto salde alcune caratteristiche in grado di rendere Marrakech la città più esotica tra quelle più facilmente raggiungibili, Covid permettendo.
Marrakesh, un po’ Africa, un po’ Francia per la raffinatezza dei suoi Riad e per la sua memoria storica e con uno sguardo rivolto ai Bazar orientali per il suo Suk; è un luogo in cui è bello perdersi.
Canetti ne ricorda le merci in esposizione in un mercato ordinato e diviso per categorie: “Qui c’è un bazar per le spezie”, racconta, “e là uno per gli articoli in pelle. I cordai hanno il loro posto e così pure i cestai. Tra i mercanti di tappeti ce ne sono alcuni che stanno sotto grandi volte spaziose; ci si passa davanti come se fosse una città a parte e si viene invitati dentro con grande insistenza… E’ sorprendete la dignità che acquistano in tal modo questi oggetti fabbricati dall’uomo. Non tutti sono belli, sempre di più s’intrufola tra loro robaccia di dubbia provenienza, fatta a macchina e importata… E’ una pubblica attività, è un fare che esibisce se stesso insieme all’oggetto finito. In una società che tiene nascosto così tanto di sé, che agli stranieri cela gelosamente l’interno delle sue case, la figura e il volto delle sue donne e persino i suoi templi, questa intensa ostentazione del produrre e del vendere è doppiamente affascinate… Esiste un’intimità che è seducente, tra il mercante e i suoi oggetti. Egli li costudisce e li tiene in ordine come se fossero la sua numerosissima famiglia”.
Marrakesh è ancora così, è un ossimoro tra ciò che tiene in serbo, tra ciò che nasconde gelosamente e ciò dona con generosità ai viaggiatori più attenti a cui apre il vecchio portone decorato di un riad o spalanca la porta di una casa privata e accoglie l’ospite con una dedizione totale.
Il viaggiatore gliene sarà immensamente grato, osservando le mani veloci di una donna che con maestria prepara il cous cous o guardando quello che la scena familiare offre in quell’istante.
Mi è capitato e ne serbo ancora le sensazioni. Quelle mani mi sono rimaste impresse. Poi ci sono le voci, le grida nei vicoli, la confusione, le trattative per un acquisto. C’è quella che Canetti ha definito la loro indiavolata allegria. Ecco, proprio quella voglia di vita, talvolta un po’ malconcia, approssimativa e confusionaria di cui però, specialmente in questo periodo, abbiamo un immenso bisogno. Abbiamo il desiderio di una piazza piena, come quella di Marrakech, non a caso la più intrigante del pianeta e appartenente al Patrimonio Unesco per i beni immateriali dell’Umanità. Anche se Jemma el-Fnaa non è più la polverosa piazza colma di cammelli in cui passeggiò Elias Canetti, resta un tripudio di genti da osservare assaporando un the alla menta, magari con un gatto appollaiato accanto al proprio bicchiere. Sognando di tornarci, di gustare quel the in cui il scroscio dall’alto della brocca è di per sé una magia, lasciamoci travolgere da un libro che racconta con poesia una città caotica, affascinate e da rivivere infinite volte.
Foto Paola Scaccabarozzi